The Thing (1982): analisi del film di John Carpenter

Ha bisogno di essere solo e vicino a una forma vitale per essere assorbito. Il camaleonte colpisce al buio.

1982, Antartide. È inverno, ed è in atto una decimazione tra le mura della base scientifica statunitense Outpost #31. Da parte di chi, o di che cosa, è ancora ignoto. In una vicina stazione scientifica norvegese, al di là delle montagne, sono state rinvenute tracce di cadaveri congelati con arti semimozzati, nastri e vecchi fogli indecifrabili, testimonianze di un massacro, una vasca scavata nel ghiaccio, il cadavere carbonizzato di una “cosa” che ha il volto di due facce fuse assieme. Una volta terminato il tour di controllo tra le macerie, MacReady torna alla base e accade l’inspiegabile: l’unico superstite fra i norvegesi, un husky siberiano, si trasforma in un mostro che massacra gli altri cani nel recinto. Parte di questa cosa sfugge al getto del lanciafiamme di MacReady.

Probabilità che uno o più membri dell’equipe possano essere contagiati dall’organismo estraneo: 75%. Previsione: se l’organismo estraneo raggiunge le zone civilizzate l’intera popolazione mondiale verrà contagiata. A cominciare da ventisette ore dopo il primo contatto.

Il biologo Blair scopre che questa “cosa” è un parassita imitatore. Forse addirittura un alieno. Basta una particella, tutti potrebbero essere stati infettati. Nessuno è più ciò che dice di essere.

Ha inizio la caccia.

The Thing (la cosa)

La cosa: genesi

Dalle ceneri del quasi-omonimo film del 1951 diretto da Christian Nyby e Howard Hawks (non accreditato), The Thing from Another World, l’ormai apprezzato John Carpenter fa germinare uno tra i film meno hawksiani di tutta la sua carriera. L’opera di Hawks, che veniva realizzata sulle basi dell’omonimo racconto di John W.Campbell (Who Goes There?, 1938) e sullo sbocciare della Guerra Fredda, costituisce senza dubbio una chiara raffigurazione fantascientifica in chiave metaforica del conflitto fra potenza statunitense e potenza sovietica. La “cosa”, di conseguenza, non è più l’essere osceno e mutaforma delle pagine di Campbell: se è vero che mantiene intatte le sue straordinarie capacità autorigeneranti, l’alieno di Hawks è uno strumento dalle fattezze del tutto umanoidi (sebbene sia un essere vegetale), compiuto, letale, che viene innescato e la quale esplosione si concretizzerà in un conflitto fra i ricercatori della base (che vorrebbero studiarlo) e i militari (che vorrebbero annientarlo). Con buona pace dei raziocinanti scienziati, la creatura viene sconfitta con una scarica elettrica ad alta tensione e il giornalista Scott comunica alla radio la salvezza dell’umanità. Le modalità e la violenza del conflitto, nonché della sua risoluzione finale, ricordano in tutto e per tutto il principio della “bomba A”.

L’alieno altro non è che un ordigno esplosivo che entra in funzione grazie a un meccanismo analogo a quello atomico: la cosa si nutre della morte di ogni essere umano (è ematofaga), uno dopo l’altro, come se questi fossero fasi di una reazione a catena destinata a culminare in una scissione nucleare.
Tuttavia, bisogna considerare che dall’opera di Hawks passano circa 30 anni e che Carpenter si trova a realizzare il suo film nell’ultimo decennio della Guerra: l’autore subisce sulla sua pelle e sulla pellicola del suo cinema la metamorfosi del conflitto col passare dei decenni, che da violento e spasmodico si fa più rarefatto e aeriforme.

La cosa: radici e influenze

Oltre a posizionarsi nell’ultima fase di un conflitto ormai maturato e cambiato nella forma, The Thing s’incastona strategicamente fra due periodi cinematografici ben distinti: da una parte, la fantascienza di serie B (di cui il lavoro di Hawks può essere considerato uno dei capostipiti più saldi) codificata nello “scientifilm” a partire dalle riviste pulp degli anni ‘50, quindi ancora contaminata dalla space-art dei suoi illustratori. The Thing costituisce una summa e una somma di un genere antico che, attraverso lo scorrere degli anni, ha subito tutte le metamorfosi storico-culturali possibili di ogni decennio, declinando le ansie e le fobie collettive a mostri e minacce aliene sempre nuove, sfociando a più riprese nel fanta-horror. Se si prende in considerazione il solo plot di The Thing figurano persino i temi portanti di un certo filone apocalittico anni ’70 inaugurato da film fra cui Andromeda (R. Wise, 1971), che segue le vicende di un gruppo di scienziati alle prese con lo studio di un extraterrestre che minaccia il pianeta Terra. Naturalmente, è necessario escludere la strada intrapresa con il post-apocalittico o il distopico, che sembrano attecchire meglio in territori ben lontani dalle desolate lande antartiche e più vicini alle terre ancora contaminate dall’uomo, siano esse metropoli (They Live, 1988) o immense città prigioni (1997: Escape from New York, 1981).

The Thing, dunque, è lo stratificarsi progressivo delle molteplici sfumature appartenenti a tutto il “fantacinema” che lo precede, ma non è tutto. Senza dubbio influenzato dall’ Alien di Ridley Scott (1979, a sua volta dichiaratamente ispirato a Terrore nello spazio di Mario Bava, 1965), successo planetario con cui comunque condivide più divergenze che veri punti di contatto, la magnificenza dell’opera di Carpenter risiede nell’aver saputo anticipare e predire un nuovo modo di fare cinema che verrà analizzato e sviscerato da altri autori già a partire da un anno dopo: non si può non pensare al body horror di David Cronenberg, preesistente con Brood (1979) e Scanners (1981) ma soggetto a una profonda mutazione morfologica a partire da opere come Videodrome (1983) e The Fly (1986), entrambe concepite nel dopo-The Thing. Le stesse vicende di The Fly (La Mosca) si dispiegano lungo l’arco temporale che una mutazione corporea (di cui il protagonista ha consapevolezza, contrariamente ai personaggi di Carpenter) richiede per essere totalmente attuata. È vero che l’esistenza di Scanners già dal 1981 potrebbe, in un certo senso, far parlare di scambio equo tra i due autori e influenza reciproca. Non sarebbe, però, del tutto giusto.

The Thing, e con sé tutta la produzione cronenberghiana immediatamente successiva all’opera di Carpenter, introduce un nuovo modo di indagare la realtà non più a partire dal mondo circostante bensì a partire dai corpi stessi: il bisogno di smantellare i confini fra il corpo e il mondo eccita e stimola un certo gusto per le carni aperte e scrutate, un gusto che in Scanners era stato tradotto nel semplice distruggersi di teste e arti che esplodono come macchie indistinte di colore su una tela. Le autopsie celebrate da The Thing, al contrario, rivelano un piacere quasi morboso per l’accurata vivisezione dell’oggetto da studiare (il corpo, appunto) al fine di svelarne un’anatomia ricreata da capo, del tutto nuova. Questa è la ragione per cui ogni trasformazione dell’alieno mutante è inesorabile eppure lentissima: quando potrebbe essere facilmente bloccata, Carpenter escogita modi per rimandarla (basterebbe contare quante volte il lanciafiamme di MacReady s’inceppa) e per mettere in scena lo spettacolo delle carni che si sfaldano, allargano, si disintegrano per ricostruirsi e poi sfaldarsi ancora, dando il via a un febbricitante gioco di inquietanti architetture fatte di tessuti e organi che si smontano e si ricompongono all’infinito.

The Thing La Cosa

Spazio e tempo de La cosa

Come vuole la poetica del suo cinema, Carpenter serra i protagonisti in un microcosmo chiuso e li assedia con un male venuto dall’esterno, in questo caso preterumano. Il baricentro spaziale su cui si svolgono i fatti è un ambiente circoscritto, contenuto, oltre i quali confini (i monti) non riusciamo a scorgere nulla. Windows tenta ripetutamente di stabilire una comunicazione con il mondo esterno e, contrariamente al giornalista di Howard Hawks, non ci riesce mai. Non esiste alcun tipo di comunicazione tra il continente antartico e il resto del globo e i protagonisti non lasciano trapelare indizi su di esso, né sul proprio passato. Non c’è proprio nulla che non ci induca a pensare che non esista niente al di fuori di ciò che si vede sullo schermo.

Abbiamo nulla per mille miglia attorno e le cose continueranno a peggiorare, non certo a migliorare.

A questo punto, è necessario tener conto della sequenza annunciatrice con la quale si apre il film: da dietro le montagne si sollevano delle colonne di fumo. Si tratta di un elemento fondamentale se si vuole stabilire una collocazione spaziale e temporale degli avvenimenti del film. La manifestazione della nube di fumo, infatti, rivela che lo spazio dell’(inter)azione è ristretto e delimitato da un perimetro più o meno preciso e che, allo stesso tempo, qualcosa di antecedente ai fatti narrati è accaduto e qualcosa che vada al di là del tempo del racconto esiste (o è esistito).
Il tessuto dello spazio disponibile, che si spiega tra la base di ricerca norvegese e quella statunitense, è spezzato da questa barriera valicabile e oltrepassata dall’elicottero che vediamo comparire all’inizio del film.

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Ponendo l’inquadratura dell’husky siberiano che corre subito dopo quella dell’elicottero che si materializza nella nube, Carpenter si avvale più che mai del mezzo macchina da presa per disorientare lo spettatore: non mostrando direttamente che il cane giunge dallo stesso luogo da cui giunge l’elicottero, è subito chiaro che la corsa dell’animale sia una fuga ma il regista nega ulteriori indizi (persino servendosi di una lingua incomprensibile, quando il norvegese avvisa gli americani della minaccia che il cane rappresenta) utili a far intendere l’origine e le cause alla base dei fatti mostrati nell’incipit, e di quel che verrà mostrato dopo.

Nonostante nel cinema “classico” di Carpenter siano apparentemente organizzati e disposti su tracciati ben precisi, il tempo e lo spazio sono entrambi elementi cardine che vengono scardinati in funzione dell’ horror tale. Nel precedente 1997: Fuga da New York, lo spazio è rappresentato da una città prigione cinta da confini, ma il tempo è del tutto soggettivo: la vita del protagonista Snake Plissken è determinata dal countdown di un orologio che ne scandisce i minuti restanti da quando ha inizio la sua missione; ma il tempo cronologico non coincide assolutamente con quello cinematografico, che invece, come la Cosa aliena, si dilata e si restringe. La Cosa, allo stesso modo, è sia fulcro delle azioni di MacReady e compagni e sia orologio che cadenza il conto alla rovescia all’imminente apocalisse, di cui si scoprono le minime tracce nel luogo isolato della base scientifica. La Cosa, insomma, modula il tempo cronologico e, mediante le sue apparizioni ai protagonisti, anche il tempo cinematografico: ogni essere umano imitato e squarciato è una certa somma di tempo in meno a disposizione per impedire che l’organismo raggiunga la aree civilizzate.

LA CREATURA

Questa Cosa non vuole mostrarsi apertamente, vuole nascondersi sotto forma di un’imitazione. Combatterà se necessario, ma è vulnerabile quando è allo scoperto. Se si impadronisce di noi non avrà più nemici. Non resterà nessuno che la possa eliminare. E sarebbe la fine.

Esponendo tutti i protagonisti al pericolo del contagio, Carpenter fa di ogni corpo una sua potenziale cavia per indagare la realtà o, almeno, per permettere ai protagonisti di farlo. La “cosa” è l’unica cosa che muta all’interno di uno spazio paralizzato. E’ un essere doppio, molteplice e che, allo stesso tempo, non è: imita perfettamente altri esseri viventi, ma nelle sue deflagrazioni senza tregua sembra non essere mai in grado di portare a termine il proprio compito. Forse non ha nemmeno una forma propria. È una “cosa” identica ai membri della base e allo stesso tempo non ha volto, forma, consistenza, nome, identità, storia. Sua sostanza e vera struttura sembrerebbero essere, più che l’occupazione di uno spazio preciso (elemento distintivo di tutti gli altri corpi), il movimento stesso, il moto del farsi e disfarsi, il tentare di occupare più spazio possibile e, insieme, l’annullarsi in un corpo nuovo fino a scomparire, in attesa di ingurgitarlo e spalancarlo dall’interno. L’essere ospite e l’essere ospitante si fondono in un unico essere magmatico inconoscibile, dove non è mai chiaro quale sia l’uno e quale l’altro.

La Cosa è un bacillo che si auto-inietta nel corpo “altro” al fine di pervaderlo e annullare i propri confini con la realtà circostante. A quel punto, l’altro non è più distinguibile. Quando La Cosa assimila (o viene assimilata?) in un corpo preesistente, essa non esiste più e il momento in cui ritorna è determinato dalla necessità di sopravvivere. Nell’altro cessa completamente di esistere ma, quando sollecitata, si ripresenta come per sortilegio e strappa i confini del corpo che abita. D’altronde, la profetica sequenza in cui MacReady gioca a scacchi contro il computer e perde non è che un presagio dell’impossibile scontro che lo vedrà presto coinvolto.
Nel momento in cui oltrepassano le montagne e s’imbattono nei resti di una stazione scientifica in macerie, abitata solo da salme in putrefazione e oggetti congelati, i protagonisti di The Thing inconsapevolmente irrompono in una sorta di dimensione parallela in cui l’immagine della stazione in cenere riflette (imita, appunto) la base statunitense in fiamme che viene mostrata nell’excipit del film. La prima immagine di The Thing, dunque, potrebbe essere ciò che cronologicamente seguirebbe l’ultima immagine del film.

Carpenter pone i suoi antieroi al cospetto di una realtà inconoscibile e sondata solo per mezzo di immagini duplicate, fallaci: la Cosa stessa è un essere imitatore che palesa la sua presenza solo sottoforma di sembianze provvisorie e solo  quando il corpo in cui risiede è ormai già stato lacerato. L’indagine ha luogo in uno spazio sì omogeneo, controllato e addensato, ma sembra riportare i protagonisti sempre al punto di partenza. MacReady tenta di giungere alla verità tramite un’ipotesi: il sangue della Cosa reagirebbe e si allontanerebbe dal calore del metallo rovente nel caso in cui la sua teoria fosse vera, ovvero se le parti di cui è composta (compreso il sangue) combattessero per difendersi e sopravvivere. Bisogna però ricordare come la forma originaria dell’alieno sia multiforme e nel contempo priva di forma, e che non sia, quindi, un composto di organi o conformazioni preesistenti. Se, per esempio, prendiamo in considerazione lo xenomorfo di Alien, opera cui viene (in parte erroneamente, visto che il plot sembra essere quasi l’unico elemento in comune) paragonata quella di Carpenter, la creatura di Ridley Scott fa sfoggio di un corpo perfettamente assemblato. Lo xenomorfo ha una coscienza, vari istinti (a quello di sopravvivenza si aggiunge quello di dominio, di riproduzione e, quindi, anche un istinto sessuale) e un proprio ciclo vitale: non si tratta, pertanto, di un parassita inestinguibile, bensì di un violento predatore perfetto.

La caverna è completamente chiusa… Ed è piena di… Oggetti come di pelle, tipo… Uova o roba simile!

[Alien, R.Scott]

Tutto il film di Scott abbonda di immagini preconcette (che, peraltro, alludono alla sessualità) sin dal momento in cui Mater partorisce gli esploratori in maniera indolore, già adulti e completamente formati, in un ambiente irradiato di luce e asettico: il Nostromo è l’antitesi dell’astronave rinvenuta sul pianeta sconosciuto, il cui interno è composto di pareti ricoperte di ossa e altro materiale organico. Si tratta di un’immagine riflessa che ricorda quella fra le due basi scientifiche del film di Carpenter. L’alieno partorito dall’universo necrofilo di H.R. Giger ha le chiare forme di un minaccioso e pericoloso riassemblaggio mortale di tutti gli organi sessuali, maschili e femminili; dalla testa falliforme alla bocca, che si apre come una vagina e rivela una terrificante lingua retrattile che culmina in un’apertura dentata a doppie ganasce (altra letale ricomposizione degli stessi organi sessuali).

La Cosa non ha coscienza né corpo, come abbiamo visto, bensì l’unico istinto di sopravvivenza. Non vi sono altre ragioni per cui, nella sequenza della defibrillazione, il corpo si scomponga in più parti e fugga in più direzioni: se la testa del cadavere zampetta come un aracnide verso il corridoio della stazione e, nel frattempo, il suo ventre si alza verso il soffitto non è perché la creatura sia stata originariamente concepita come una somma di queste parti, bensì perché è nelle sue illimitate capacità quella di scindersi e moltiplicarsi al fine di conservarsi. È solo l’innata facoltà, di un essere imitatore, di mutare i propri processi metabolici e fisiologici per adattarsi.

MacReady è solo un antieroe carpenteriano che fronteggia un male atavico, lovecraftiano, incastonato nelle viscere della terra da millenni e ora destato. Questo male, in The Thing, è una realtà appena scoperta, quindi ancora estranea: nonostante le informazioni acquisite grazie alle videoregistrazioni rinvenute presso la base dei norvegesi, nessuno scienziato statunitense sa di cosa si tratti. Il percorso di MacReady e dei compagni è lento ma scandito dal sangue, le informazioni giungono tramite l’osservazione e l’osservazione può attuarsi solo quando la Cosa agisce. E quando la Cosa agisce, qualcuno sta per morire. I tentativi, perciò, sono contati, e la conoscenza è limitata e fievole. In poche parole MacReady non è giunto alla verità, bensì a una giusta soluzione temporanea (il test del sangue) tramite, peraltro, ragionamento errato.

La Cosa carpenteriana non ha nulla da spartire con l’animale di Scott (né con qualsivoglia strambo essere viscido che possa somigliarle), che invece viene partorito da un altro corpo e cresce, si riproduce e infine potrebbe addirittura morire. Le parti dello xenomorfo costituiscono un corpo unico che incarna le angosce dell’uomo e invade un determinato spazio, senza mai violarne i confini.
Contrariamente, la Cosa è ben distante tanto dal restare segregata in un involucro stabile quanto dal voler raffigurare metaforicamente una paura. Il regista afferma che “la cosa può rappresentare tutto: l’avarizia, la gelosia, ogni tipo di male che l’essere umano imbraccia”, ma sarebbe controproducente e contraddittorio stabilire che una fobia, collettiva o individuale, possa essere incarnata da una materia polimorfa e instabile come quella della Cosa. La sfuggente creatura di Carpenter finisce per essere, più che l’allusione simbolica a una paura, solo un mezzo (concreto, perché l’alieno è tutt’altro che irreale) adoperato per mettere a nudo l’uomo: con tutte le sue paure, quindi, anche le estreme conseguenze da esse trascinate.

La cosa

La Cosa, in pratica, fa scattare un girardiano meccanismo di capro espiatorio: rappresentando simbolicamente il contagio della rivalità che si stabilisce fra più imitatori di un individuo (imitato), essa dà il via a una spirale di violenza che si risolve ogni volta con l’uccisione della “vittima arbitraria” da parte dei restanti membri del gruppo. In tal modo, la Cosa (e la vittima) acquisisce il duplice valore di causa scatenante della crisi ed essere “sacro” in grado di ripristinare la quiete.

Si tratta comunque di una quiete transitoria: il parassita, il camaleonte che si muove al buio, è uno strano congegno di cui Carpenter si avvale per porre l’accento sulla più opprimente delle ansie che attanagliano l’uomo moderno: la necessaria messa in discussione della propria identità e della realtà. L’io viene meno come entità unitaria, compatta. Quando l’alieno viene disteso sulla barella e viene per la prima volta osservato dai protagonisti, MacReady fissa il suo volto composito come a scrutarsi davanti a uno specchio: l’io che presenta agli altri è solo una parte piccola della sua personalità, che invece è un agglomerato di grosse parti sconosciute che si sveleranno poco a poco o che, forse, continuerà a tenere nascoste.
Dal momento in cui la Cosa viene dissotterrata e s’infiltra all’interno dell’edificio, nessuno potrebbe più essere lo stesso e nessuno è davvero più lo stesso. In tal modo si frantuma progressivamente, come la carne, anche lo stesso gruppo che si era scagliato contro la creatura nel pieno della sua prima mutazione.

La cosa finale

Lo scopo per cui i protagonisti sono stati mandati in Antartide resta sempre fuoricampo e viene presto sostituito da uno scopo più alto, lo stesso istinto per cui agisce l’alieno: la sopravvivenza ad ogni costo. Nell’istante in cui viene ravvivato questo ancestrale istinto (che nella società, invece, rimane sopito), l’uomo conosce, apprende e mette subito in pratica la capacità di adattamento e si scopre egli stesso straordinario essere imitatore.
L’uomo vuole vivere, ed è quindi disposto a qualsiasi atto per poterlo fare.
La Cosa potrebbe essere qualsiasi uomo perché ogni uomo è esattamente come lei.

Il nichilismo con cui Carpenter avvolge il finale della sua opera più complessa, inquietante, germinante e scivolosa è più perentorio di quanto non si voglia credere: MacReady e Childs sono gli unici sopravvissuti, ma potrebbero essere già morti, inghiottiti dalla Cosa. Forse la Cosa è stata definitivamente debellata, oppure uno di loro è l’alieno, oppure lo sono entrambi.
Forse la Cosa tornerà semplicemente a dormire nei ghiacci, laddove resterà in attesa di essere risvegliata da qualcun altro.
O forse è troppo tardi, e l’umanità tutta è già stata contagiata.
Forse nessuno di loro due è l’alieno, e presto arriveranno i soccorsi.

Oppure è solo questione di tempo prima che le fiamme si estinguano, e che tutti e due muoiano assiderati nel gelo polare.

3 pensieri su “The Thing (1982): analisi del film di John Carpenter

  1. Splendido articolo. Alcune riflessioni e spunti davvero originali e inedite, considerato che si tratta di un film di cui tanti (troppi?) hanno scritto e parlato. Ottimo lavoro.

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